Le Nuvole

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De Te Fabula Narratur
labores
note tecniche

 
 

 

 

Amiamo le storie.


Le creature umane amano le storie. Ne hanno bisogno. Ne restano incantate.
Per ogni individuo, ogni storia può rivestire un valore prezioso, perché forse proprio quella storia che ora gli sta capitando di leggere, ascoltare o vedere, parla esattamente della sua storia, della sua propria esperienza.

 

 

 


 

 

La vita è rotta, frammentata, sconnessa. Incespica, procede per piccoli e grandi disastri, ci lascia senza fiato, lacrime, ancora più spesso senza parole.
In una storia si può ritrovare di nuovo un senso, un motivo, un nesso coerente. Le angosce, i dolori, la solitudine, finalmente trovano appoggio nelle parole, per essere compresi, detti, comunicati. Ma anche i nostri sogni, le nostre speranze vogliono essere narrate. Solo quando le parole si dispiegano vengono tracciati finalmente il contorno del mondo e i confini della nostra esperienza fugace.

 

 

 

 

 

Le Storie ci uniscono.


 

 

Racconti provenienti da secoli lontani talvolta, nelle chiuse oscurità delle vite presenti, dischiudono orizzonti mai prima nemmeno lontanamente immaginati. Le storie risuonano sempre di echi diversi, poiché la materia in cui esse si propagano è fatta delle anime dei viventi, che mutano perennemente, senza mai ritornare, così come la loro esperienza.

 


 

 

 

 

 

Parole, ma anche immagini, gesti, suoni, hanno lo straordinario potere di riflettere per ogni persona un frammento diverso dell’universo, corrispondente esattamente al proprio particolare angolo di visuale. In questa possibilità di rifletterci contemporaneamente nelle stesse storie, noi ritroviamo il nostro essere politici, il nostro formare comunità. La comunità si estingue quando non c’è più storia condivisa. Eppure non è tanto la condivisione dei racconti ad unirci, quanto piuttosto l’amore istintivo di ogni essere umano per la narrazione che ci affratella davvero.

 

 

 

 

Le storie ci scelgono.


Così desiderosi, così bramosi ne siamo, che quasi ogni storia funge allo scopo. Siamo fatti di storie, senza non vivremmo che un vuoto, angoscioso stupore. Ecco perché di solito le storie non si scelgono, ma ci scelgono. Esse ci si parano innanzi, e il mondo prende per noi quella forma.
Nelle comunità arcaiche germinavano da una generazione all’altra, e si gonfiavano di leggende. Così sono nati saperi, superstizioni, la scienza stessa del mondo. Ed ancora quel bisogno resta inevaso, poiché niente altro può illuminarci le strade della vita presente. L’umanità non esisterebbe così com’è senza la trasmissione del suo sapere da una generazione all’altra. Per questo siamo così aperti ad ogni narrazione: ne va della nostra stessa essenza. L’umanità nasce disposta a credere a quello che le raccontano.

 

Chi narra?


Sarebbe bene, dunque, considerare da quali storie ci facciamo narrare. Bisogna tener conto che questo amore primario incontra interessati cantori. La nostra visione cambia a seconda di chi ce la narra. Ad esempio, c’è chi ce la racconta per i propri personali interessi. Niente è più facile di far credere a chi non sa quello che noi vogliamo fargli sapere.
Pasolini lanciava il suo allarme. Le storie arcaiche dei vecchi, specchio rozzo ma possente di comunità contadine, chiuse, serrate per secoli ma unite da una loro endogena narrazione, sono state sterminate. Ora, come il grande poeta temeva, alla grande maggioranza delle popolazioni non resta che la narrazione iper-controllata dei mass media, che ha spesso l’unico intento di difendere la struttura simbolico-gerarchica delle classi dominanti. È nel controllo dell’informazione che sostanzialmente si svolgono gli attuali scontri tra poteri antagonisti. I saperi sono filtrati al millesimo, e trasuda per i più soltanto una storia complessivamente semplificata e grottesca, che promuove istinti rozzi e animaleschi.

 

Il mondo narrato dalla pubblicità.


Nei media la riflessione, la sospensione del giudizio, la delicatezza, la cura, sono banditi. Via ogni indulgenza verso la debolezza, l’inadeguatezza, la mancanza di spirito, la mancanza di coraggio. Estinti, nei modelli proposti, le problematiche affettive di dubbia risoluzione, la malattia grave, la malattia mentale, l’incedere ineluttabile del tempo, la formazione perenne del dubbio, l’incostanza, la perdita della speranza. Come se l’umanità attuale avesse risolto ogni incrinatura della propria natura, e tutto fosse risolvibile con qualche buona nozione e molta spregiudicatezza.

 


 

 

Via libera allora alla condiscendenza verso le tendenze umane più grevi e violente, come il sapersi imporre sugli altri con ogni mezzo, l’esercizio del predominio, l’ostentazione dei traguardi raggiunti, lo sberleffo sul debole, l’approvazione del prevaricatore, del furbo, del blitz militaresco.Largo spazio all’esaltazione ferina degli appetiti sessuali soprattutto del maschio, con la donna ed il suo intero universo spesso ridotti a pura iconcina sexy.

E quindi ovunque, infarcita nel tutto, come presagiva Fellini, una continua, inarrestabile profusione di messaggi pubblicitari, che spingono a trovare nel consumo i rimedi ad ogni nostra esigenza. Quali esigenze poi? Quelle che essi ci raccontano: i batteri annidati nel cesso, il parcheggio, la merendina.

 

 

 

 

 

 

 

La teoria dei bisogni indotti non trova più critici, tutto è permesso. Le tecniche della comunicazione, della poesia, sono poste interamente al servizio di aziende che producono ogni sorta di merce. Non sarà mai denunciata abbastanza la schiavitù dorata a cui è sottoposta oggettivamente la gran parte delle intelligenze creative del nostro tempo nell'ambito dei vari studi grafici e pubblicitari. Ogni innovazione semantica, ogni spunto di riflessione, sono destinati all'oblio se non trovano un lesto impiego nel promo da confezionare entro il weekend.

Anche sull’opera d’arte propriamente detta il mercato ha assunto da tempo il dominio. Non solo per il suo schiacciante potere nell’ambito dei propri irreggimentati canali di diffusione. Ma, qualora la narrazione li superasse indenne (cosa di per sé già difficile da immaginare), essa si troverebbe comunque successivamente a fare i conti con la struttura puramente celebrativa della merce delle società attuali.

 

 

 

 

 

Lo sfregio dei sentimenti.


Basti pensare alla violenza inaudita a cui vengono sottoposti impunemente gli spettatori durante le visioni dei film trasmessi dal mezzo televisivo. Il conseguimento del climax, meticolosamente costruito dall’artista mediante la struttura narrativa con l’unico scopo di comunicare un pensiero, un’idea, una storia appunto, viene ogni volta brutalmente interrotto proprio al suo apice, ora per pubblicizzare una gomma da masticare, ora un whisky d’annata, ora un’auto sportiva. E senza che questo ormai desti il benché minimo scalpore.
Uno dei sistemi più popolari per diffondere storie e suscitare sentimenti è insomma militarmente presidiato dalla produzione industriale, senza che nessuno osi segnalare la gravità delle conseguenze che tale pratica produce sulla interiorità emotiva. Si viene colpiti al colmo della commozione continuamente e il sentimento viene infine, sistematicamente, dirottato sugli obiettivi prefissati dai pacchetti previsti di spot.

 

Di fatto il sentimento viene coattivamente negato. In termini psicoanalitici, esso viene occultamente spostato. Si esercita sulla psiche abbandonata all’incanto di una storia una serie di traumi furtivi, che vengono subitamente rimossi dai prodotti pubblicizzati. Per mezzo di quei traumi metodicamente ripetuti fino all’esasperazione (controllata: si calcola l’esatta quantità di spot che si devono subire perché la memoria del prodotto resti fissata il più a lungo nel tempo) essi confidano che, nella ferita slabbrata del sentimento appena destato dalla storia, quando ancora siamo aperti e commossi verso la narrazione precedente, si innesti un tappo di detersivo, resti infissa una stanghetta d’occhiale, si disfi una briciola di biscotto. Qui non siamo più a livelli di sublimine, qui siamo allo stupro di massa previa narcosi emotiva. Quali uomini e donne possono nascere da simili pratiche? Che genere di schiavitù vengono coltivate mediante queste sevizie? C’è qualcuno che se lo chiede? Quali orrende devianze dell’anima possono scaturire da questa opacizzazione dell’emotività così tenacemente perseguita?

 

 

 

 

I Mostri.


In definitiva, un bisogno primario, essenziale, della natura umana, viene drammaticamente violentato per favorire gli interessi economici di alcuni sparuti individui, che non conoscono vergogna né scrupolo. Essi non posseggono il dono dell’appartenenza, della condivisione e della fratellanza. Essi non partecipano di una visione ideale. Il loro mondo è fatto di interessi meschini, privilegi inauditi, inaccettabili soprusi, orrendi delitti nemmeno più annoverati. Sono i rappresentanti di una umanità desentimentalizzata, prede di una avidità primitiva, che per primi hanno subito lo scempio della loro capacità di amare e immedesimarsi.

 

 

 

 

Ladri di Storia.


In questo scenario viene commesso il peggiore delitto di tutti, quello che nemmeno si nota, il delitto assente. È il furto della Storia, del racconto minuto delle nostre flebili vite. Esso viene sostituito, nella rappresentazione proposta dai media, da orrendi pupazzi, sempre pronti a sorridere, divertire, ammiccare. Sempre intenti a offendere o rimuovere l’innocenza, l’inadeguatezza, l’incapacità.
Mentre chi avrebbe la capacità di narrare, chi possiede le informazioni sul presente che scorre, si guarda bene dal divulgarle. Se si escludono piccoli scampoli, inezie di frammenti, relegati nelle pieghe più oscure dei palinsesti (dove persino allora si trova il modo di infarcirli di reclame ottimiste, negazioniste) la maggioranza di chi raccoglie informazioni usa il proprio sapere solo come strumento di ricatto per i propri scopi privati. I giornalisti venduti sono i peggiori servi del potere, perché commettono un furto che cancella il delitto.

 

Defraudando le popolazioni delle informazioni di cui essi sono venuti in possesso, le condannano ad ulteriori decenni di schiavitù, perché le privano di una storia comune, della narrazione stessa delle loro vite. Come se si vivesse, tutto sommato, invano. Che altro resta dell’uomo senza la sua Storia? Ad esempio, ed è il caso più eclatante, tra cinquant’anni, sarà impossibile ricostruire la catena dei soprusi commessi dalla classe politica sul territorio del Mezzogiorno (e non solo), perché non esisteranno più documenti, prove, indizi, che invece sarebbero dovuti essere raccolti, diffusi, gridati, dai sedicenti giornalisti. Essi in realtà li posseggono, ma, pavidi e subdoli complici del potere – che spiano con occhi invidiosi – si guardano bene dal divulgarli, come fosse il loro unico, privato tesoro, la loro unica chance di raccogliere le briciole al banchetto immondo che invece dovrebbero denunciare.

 

 

 

La Pazzia.


Ecco come ci riducono. A trascinare come morti viventi le nostre vite in penombra, che mai nemmeno lontanamente potranno brillare delle luci che i racconti ipertrofici della pubblicità emanano per accecare. Se nessuno si prende la briga di narrare delle nostre incertezze, dei nostri ritmi lenti, modesti; dei nostri fallimenti, delle nostre mediocri paure, dei nostri dubbi senza importanza, della nostra inesperienza, dei nostri opachi travagli; se nemmeno dei soprusi più lampanti e macroscopici serberemo il ricordo, che ne sarà di noi?
Sembrerebbe che, per recuperare almeno l’eco delle nostre emozioni perdute, non ci resti che scivolare attoniti tra le corsie degli ipermercati, penosa imitazione di quei centri storici ormai svuotati da quegli stessi ipermercati. Spesso, a chi vive semplicemente la pesantezza del vivere, non resta che lo sprofondo nella depressione, tanto più aggravata dalla sua negazione imperante.

 


 

È così che il vicinato si ammala, diventa pestilente, mentre marcisce nelle sue malattie innominate. A chi vive la vita senza più racconto non resta che il grido spezzato, la disarticolata violenza della crudeltà e del risentimento, dove finalmente prendono forma soltanto le storie orrende delle reciproche paranoie, in cui ognuno è all’altro nemico, in una esponenziale sequenza di eccidi, prima solo allucinati, e poi sempre più spesso messi in pratica. Si incomincia con il portare la follia della guerra nelle terre degli estranei, degli altri, quelli che le storie le hanno da sempre avute diverse; poi via via l’eco dell’orrore si fa più vicino, fino a esplodere nel portico sotto casa, tra i banchi colorati delle conserve alimentari nei supermercati, sul nostro pianerottolo, nelle nostre cucine, nei letti dei figli bambini.

 

 

Un lavoro per l’arte, una dedica alla follia.

Ecco dunque un buon compito per l’arte: ritornare a narrare le nostre vite presenti, le nostre affettuose miserie, per cercare di rendere un minimo di senso a queste vite che si disperdono come stracci nella tempesta senza più il peso dell’angoscia finalmente vissuta e narrata, senza più l’ombra dei nostri stessi pensieri. L’arte sostiene che la devianza, l’alterazione, la disfunzione sono la norma. E che con questa parola si indica solo un valore medio astratto, puramente statistico dell’esperienza reale. L'arte dimostra, con il suo misterioso e perenne mutare, che in ultimo la norma non esiste. Essa (insieme alla sensibilità estetica in generale) sembra quasi il sistema che la specie homo utilizza per adattarsi ed affrontare i cambiamenti e gli imprevisti (tragici, comici, felici ecc.). La complessa gamma dei sentimenti umani trova nell’arte il suo più completo dispiegamento, diventandone in pratica una immensa enciclopedia. È la storia dell’anima, che nell’arte si rivela. Saperla apprezzare ci educa all’esperienza interiore, ci rende edotti sulle profondità di Anima stessa, sul suo dolore, le sue avventure, i suoi panorami, le sue visioni.


 


L’arte, o almeno una parte della sua produzione, la immaginiamo quindi intenta a raccontare il nostro destino. Quello che ci accade, quello che ci sfugge, che ci fa soffrire, quello che ci fa sognare. Vorremmo che raccontasse tutti i nostri giorni, che con la sua tenerezza, il suo amore sottile prendesse nelle sue mani delicate ogni goccia del nostro vivere. Che fosse la nostra bella memoria, questo vorremmo.

Vorremmo che un giorno, senza sapere come, un frammento della nostra esistenza che sembrava perduto per sempre, potesse di nuovo brillare davanti ai nostri occhi, sommergerci di gioia come allora. Per un attimo tutto sembrerà tornare, e il nostro tempo avere finalmente un senso.

Noi sogniamo un arte diffusa, popolare, che fiorisce e si disperde nella comunità che la produce, dove gli artisti sono considerati una ricchezza di cui essere orgogliosi, perché essi rappresentano il punto in cui la comunità si esprime, si apre, dischiude nuovi orizzonti. Come una rottura della trama chiusa, come una sorgente nella roccia, una mammella da cui sgorga latte per tutti. Essi andrebbero protetti, salvaguardati, sostenuti, qualsiasi cosa essi producano, perché già credere di poter dire qualcosa, già il sentirsi investiti da questa responsabilità, è un atto di grande coraggio, perché esporsi è una scelta difficile, rischiosa, fatale.

 

 

I folli sono vicini agli artisti, perché anch’essi sono un punto di rottura del tessuto sociale ma senza più parole, linguaggio, racconto condiviso. Come se stavolta nella trama si aprisse una ferita, essi sono l’effetto più tragico della nostra incapacità di aprirci all’altro, e all’altro dentro di noi soprattutto. E nel loro immenso, lancinante dolore di non riuscire più ad amare ed essere amati, nel non potere più partecipare non solo di quella degli altri ma persino della propria vita, essi gridano, gridano l’inarticolato, ciò che non si può più comprendere.

L’arte cerca le parole (oppure colori, gesti, suoni) le assembla, ne conia di nuove; costruisce discorsi, racconti, come fanno i buoni falegnami con le loro sedie, per provare a rappresentare l’esperienza che viviamo nel presente, perché se ne serbi in qualche modo la memoria.


Anche la follia è alle prese con la stessa urgenza, ma essa annaspa, si dibatte, brancola nel buio senza mai riuscire a trovare una via d’uscita. La follia denuncia l’esistenza di una solitudine senza scampo, dove non si è più in grado di offrire o ricevere una mano, un sostegno, un sorriso. Essa continua a narrare, senza le giuste parole ma con drammatica evidenza, l’insondabilità e l’enigma del dolore individuale. I folli ci insegnano l’umiltà di fronte alle forze che scuotono l’esistenza, ecco perché li rifuggiamo, li segreghiamo, li abbandoniamo: ci ricordano sempre che anche noi siamo come loro: deboli, inesperti, inermi.

L’arte e la disperata follia: siamo sempre noi, le comunità delle donne e degli uomini, che produciamo due effetti per soddisfare la stessa esigenza vitale: il bisogno di condividere, la necessità di comunicare, la voglia di gridare: qui, proprio ora, io sto vivendo, e insieme a me tutto muore, spandendo intorno una luce di bellezza.